Fondazione Granata - Braghieri

Ennio Bencini nasce a Forlì nel 1942 da genitori toscani. Il padre, Natale, è un apprezzato pittore nella tradizione post-macchiaiola. Presto la famiglia si trasferisce ad Arezzo. In Toscana avviene la sua formazione cul­turale e nasce il suo primo interesse anche per le cosiddette arti minori, dall’orefice­ria ai manufatti rituali religiosi. Ad Arezzo si diploma presso l’Istituto d’Arte, anche se i suoi primi studi sono stati di carattere commerciale, presto abbandonati tra in­successi e delusioni.  Non potendo fre­quentare il liceo artistico di Firenze fini­sce per iscriversi all’Istituto d’Arte di Arezzo. Qui riscopre la sua vera vocazione e si distingue fra gli altri per le sue attitu­dini al disegno. Nel 1962, dopo il diploma, consegue l’abilitazione all’insegnamento del disegno e della storia dell’arte nelle scuole statali. Inizia cosi la sua carriera divisa tra pittura e insegnamento. II suo allunato vero e propio avviene sotto la guida del padre, il che gli permet­te di frequentare artisti importanti di stretta pertinenza toscana. “Accadeva – scrive ancora Bencini – che alla sera, dopo cena, venissero i suoi amici, pittori e scul­tori, tra cui Annigoni, Primo Conti Luigi servolini (che era Stato mio padrino di battesimo) e questo mi metteva in uno stato di ebbrezza: in un angolino, in quel clima di familiarità, ascoltavo interessato lo svolgersi delle loro stupende e graffianti discussioni”.

Compie numerose peregrinazioni in To­scana e in Umbria, colpito dalla grandezza di Giotto e dei giotteschi, dalla spiritualità severa di Piero della Francesca. Tuttavia la grandezza antica, se da un lato lo conforta, dall’altro lo spaventa, e d’altra parte sente di doversi liberare dalla tradi­zione paterna come un imperativo catego­rico. Alla fine degli anni Sessanta e all’ini­zio dei Settanta Bencini vive un periodo di crisi; quello che dipinge non lo soddisfa e sente la necessità imprescindibile di rin­novarsi. Ed è lo stesso artista a raccontare come riuscì a superare quel disagio pro­fondo: “Un giorno, mentre all’isola d’Elba passeggiavo sulla riva del mare, m’imbattei in un elemento a me del tutto nuovo: una spiaggia di sabbia nera, piena di vita per i luccichi ch’emanava. Una folgorazione e forse una rivelazione! Mi ci tuffai diventando io stesso nero e brillante. Prima di andarme­ne, ne raccolsi qualche manciata per non sentirne il distacco. La tenni gelosamente nel mio studio, finché un giorno questa sabbia mi si rivelò nella sua pienezza enig­matica: diventò colore espressivo e mi fece scoprire il fascino dell’invenzione…” Nel 1972, dalla Toscana si trasferisce a Milano; in tale contesto si attua la trasfor­mazione radicale della sua arte. Per una sorta di riflusso, a Milano, lontano dall’a­mata Toscana, Bencini riscopre, nelle forme nuove del suo lin­guaggio artistico, la passione del collezio­nismo di arti minori, specie dell’artigianato antico. All’inizio questo collezionismo è eterogeneo, ma cresce in tale quantità che l’artista si sente sommerso dalle cose, do­ve “tra pietre serene e pergamene, cibori e tabernacoli, corna di buoi maremmani, vetri, contenitori di sabbie di ogni colore… ho finalmente dato sfogo al mio modo di fare”, scrive ancora Bencini nelle sue note biografiche.

E’ una maniera di fare arte a lui congeniale, senza eccessi d’ intellet­tualismo e, soprattutto, di pittura descrit­tiva sul piano letterario a vantaggio di un’arte essenziale e perfino povera nella riduzione a schemi formali di geometria piana; nel recupero di schemi arcaici Ben­cini riscopre il senso di uno stupore primigenio di grande pregnanza espressiva. Negli anni Ottanta e sino ai nostri giorni l’arte di Bencini si manifesta appieno nel­l’esaltazione di una magia degli elementi rituali che sono il segno di un’arte simbo­lica, tutta personale e rara nel panorama artistico contemporaneo in Italia.

L’artista vive e lavora a Bellusco (Milano), dove ha casa e studio.